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Il Re CenZore

se ne sentiva proprio la mancanza...

Exodus, un uomo solo al comando

Exodus, un uomo solo al comando

La sua maglia non è biancoceleste e il suo nome non è Fausto Coppi. E soprattutto a raccontare le sue gesta non c'è la voce tesa, chiara e vibrante di Mario Ferretti.

Eppure questo Mosè in salsa hollywoodiana di Ridley Scott qualcosa da dire ce l'ha, nonostante il film non sia proprio un capolavoro. Eppure parte bene, benissimo. Le riprese iniziali mostrano parecchi omaggi ai kolossal degli anni '50. La prima scena in cui si mostra il faraone interpretato in modo sublime da John Turturro, l'inquadratura e soprattutto la fotografia valgono il prezzo del biglietto.

Exodus, ovviamente, racconta l'esodo degli ebrei dall'Egitto, legandosi altrettanto ovviamente alla storia di Mose e di Ramses, dell'origine dell'eroe biblico e di come si scopre la sua origine israelita, con un ottimo espediente narrativo e la grande presenza di Ben Kingsley.

A parte la bellezza glaciale di Sigoruney Weaver, presente in poche ma incisive scene, però, rimane ben poco. Christian Bale, oltre a quella sua tipica espressione facciale da scozzese simpatico e irriverente, riesce a incidere ben poco. Se poi la sua interpretazione viene orrendamente oltraggiata dallo scandaloso doppiaggio con zeppola, vabbè.

Ramses poi è interpretato da un semisconosciuto Joel Edgerton, uno dei cugini acquisiti di Anakin Skywalker ne La vendetta dei Sith, che qui ricorda parecchio il Serse della graphic novel 300, altrettanto arrogante, meno maestoso e troppo palestrato.

Splendida Maria Valverde nel ruolo della moglie di Mosè.

Procediamo così, a salti, perché un po' a salti procede anche il film. Dopo una prima parte scorrevole e avvincente, con buone scene di guerra e di corse di bighe in stile Ben Hur, dalla morte del faraone Turturro in poi il film procede a salti, e la storia la sappiamo tutti: Mosè tra mille peripezie trova il modo di liberare gli ebrei con l'aiuto di un dio capriccioso e vendicativo, in pieno stile vecchio testamento, e lo conduce verso la terra promessa passando attraverso il Mar Rosso che dopo il suo passaggio inghiotte gli egiziani che lo inseguono a rotta di collo.

E' quello il momento che tutti aspettano dall'inizio del film, più della scena delle tavole della legge e del cespuglio infiammato, più delle sette piaghe e dell'angelo della morte che uccide tutti i primogeniti non ebrei. E quel momento arriva, implacabile, in una resa visiva senza dubbio suggestiva.

Per il resto, il film cerca di strizzare l'occhio a tutti, ma proprio a tutti: agli appassionati del dibattito sulle religioni, sul predominio di una cultura su un'altra, sul fanatismo religioso e sull'oscurantismo illuminato, sulla politica di un uomo forte e sulla democrazia, su Israele e Palestina. Ma non fatevi abbindolare, questa è proprio la pecca più grande di questo film, il voler far riferimento a troppe cose. Spogliandolo da tutti questi orpelli, nel film resta la figura tormentata dell'uomo al comando.

Mario Ferretti, commentando una storica tappa del Giro d'Italia dell'ormai lontano '49, descrisse con una frase diventata storica lo spuntare da dietro una curva della testa della corsa: "un uomo solo è al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi".

Ma Ferretti non diceva che c'è semplicemente un uomo al comando, l'essere al comando implica che l'uomo con questo incarico è un uomo solo.

Mosè e la sua nemesi Ramses in questo film hanno il fascino degli uomini soli, che hanno sulle spalle la responsabilità e l'onere di dover comandare, di fare da guida in un momento che storicamente risulta tra i più controversi. Il faraone imponente e capriccioso non è solo un principe infantile, nella sua cultura è un dio in terra, ha il comando assoluto su tutto e tutti, possiede facoltà di decidere a proprio piacimento di vita e di morte, ma deve guardarsi le spalle da tutti quelli che lo circondano, dai cortigiani ruffiani ladri e incapaci, dalla sua stessa madre che trama alle spalle di tutti, da un dio oscuro e spaventoso che gli porta via il figlio in fasce.

Mosè è un visionario, uno scettico che ha enormi doti di comando e la solitudine scritta nel proprio destino. Da egiziano, non condivide l'iniquità della gestione del potere, il ricorrere ad auspici sanguinosi e sacerdotesse che si abbandonano al rituale. Da ebreo non condivide lo spirito dimesso di questo popolo, non ne condivide nemmeno le credenze finché non si imbatte, dopo aver battuto la testa, in una visione che gli si presenta come un bambino che interpreta nientemeno che Dio. E per unire il proprio popolo e condurlo è costretto a sobbarcarsi da solo il peso della sua scelta, ad allontanarsi dalla sua famiglia, a tenere per sé i propri dubbi.

Su entrambi, ellenicamente, il dominio del Fato, che lo si voglia chiamare fortuna o sfortuna, dio o superstizione, e che ne governa in maniera intellegibile il destino. Di sicuro, l'approccio deterministico all'ambito della cultura umana, che comprende anche la religione, non è certo la via più idonea a interpretare la storia. E i fatti che stanno accadendo lo evidenziano.

 

 

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