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Il Re CenZore

se ne sentiva proprio la mancanza...

Robocop, chi vince fra l'uomo e la macchina?

Robocop, chi vince fra l'uomo e la macchina?

Accade spesso, ancor di più nella fantascienza, che la lettura, anzi la visione di un film abbia uno o più punti di vista spiccioli, quelli che senti dire al tuo vicino di poltrona indesiderato al cinema, del tipo: ma dai era più bello l'originale, non ha fatto quella battuta, sembrava un videogioco, si sparava poco, troppi sentimentalismi e altre menate del genere. E poi ci sono i punti di vista intellettuali o pseudotali, di chi per sfoggiare la conoscenza delle tecniche di ripresa comincia a parlare di piani sequenza, di soggettive, che gli ricordano chissà quale titolo, forse neanche realmente esistente, di quel regista giapponese allievo di Kurosawa che però aveva un passato da tossico nei sobborghi di Kanagawa. Insomma roba da farti venire un'orchite anche se sei un'educanda che ha vissuto gli ultimi 6 anni rinchiusa in un collegio svizzero, e di anni ne hai 15. Fatto il preambolo, arriva il però. Il però è che per Robocop c'è davvero una doppia visione. Una è legata strettamente al film, molto ma molto ben fatto, con un cast di rilievo assoluto, un misto di tecniche che in alcuni punti riprendono, in meglio, alcune riprese dell'originale, in altri punti, come nelle scene di inseguimento o le sparatorie, riprendono la visuale dei moderni videogiochi, quelli in cui si spara a qualsiasi cosa. Cinematograficamente, Robocop non è mai banale. E non è poco, di questi tempi, per un reboot. Poi c'è la questione filosofica. Si lo so, non lo volevo neanche scrivere. Ma come fare altrimenti? Il punto è che l'eterna lotta tra uomo e macchina, tra umanità e tecnologia, tra volontà e predeterminazione si amplifica creando una spirale narrativa da cui si esce, con difficoltà, nella non riuscitissima conclusione del film. La lotta esterna di Murphy/Robocop contro il crimine si riflette dentro la sua stessa storia personale, dopo che fantascientifiche modifiche cerebrali l'avevano messa a tacere e torna violentemente a galla, determinando la sua tremenda vendetta. Nello sviluppo pur semplice dell'intrigo, con riferimenti graditissimi ai complottisti di ogni genere, Robocop vive la propria lotta interiore tra quello che era e quello che è, tra quello che vuole e quello che la macchina gli fa credere di volere. Uomo e macchina, fusi nella stessa unità, metafora dell'eterna battaglia tra volontà e status? Agli intellettuali l'ardua sentenza. Fatto sta che spesso, sempre più spesso, ci ritroviamo (dantescamente) ad aver preso delle decisioni come se fossero venute da fuori, come se qualcuno ci avesse aperto il cervello, asportato la sede della coscienza, installato un microchip e richiuso il tutto, senza però almeno averci dato un'armatura superfichissima e pistolone scintillanti. In fin dei conti ottimo il film e ottimo il cast, in cui tra gli altri - Joel Kinnaman protagonista dell'ottima serie The Killing, Gary Oldman, Michael Keaton, il parruccatissimo Samuel L. Jackson e la splendida Abbie Cornish - secondo me spicca un ruolo "secondario", quello di Jackie Earl Haley, il Rorschach di Watchmen, che qui interpreta da par suo l'armaiolo incaricato di addestrare Robocop e di controllarlo per conto della Omnicorp.
Geniale e ironicamente didascalica, sui titoli di coda, "I fought the law", la cover dei Clash della canzone di Sonny Curtis, incisa per la prima volta dai Crickets nel 1959.

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